1954, nasce il teatro cristallo
Molti non lo sanno: prima della chiesa vera e propria viene edificato il teatro. Il nuovo quartiere, o “rione” come si diceva una volta, si va popolando di persone, e quindi di anime, ma la comunità non ha un vero punto di riferimento. Parte del terreno dell’Abbazia di Novacella viene ceduto alla Curia; la prima pietra di quella che sarebbe diventata la nuova parrocchia viene posata nel maggio del 1954 e su questa cresce... il Cinema Teatro Cristallo, che viene inaugurato il primo novembre di quello stesso anno dall’allora arcivescovo di Trento Carlo de Ferrari. É una sala allo stato grezzo e funziona, inizialmente, come chiesa provvisoria: di fatto è nata, sotto altre spoglie, la parrocchia di Regina Pacis. Come è consuetudine dell’epoca, il primo parroco, don Lino Giuliani, si preoccupa di creare prima di tutto uno spazio che permetta alla comunità di aggregarsi e di costituirsi con un’identità propria al di là della fede di ciascuno: da qui la decisione di costruire prima il Teatro, usato provvisoriamente anche come luogo di culto, e solo in un secondo momento la chiesa. Nel ’55 viene infatti costruita la parte inferiore dell’attuale chiesa con annessi l’oratorio e la scuola materna. Si dovrà attendere il maggio 1960 per vederla definitivamente completata come luogo di culto, ma la missione pastorale è già iniziata con il Cristallo.
Note storiche
Parrocchia e quartiere, in quegli anni, sono sinonimi. Anche la comunità di Regina Pacis, nel bene e nel male, risente della “distanza” dalle altre comunità sparse in città. Nel bene, quando i residenti si schierano nel sostenere l’identità e le caratteristiche della loro parrocchia; nel male, quando prevalgono le discriminazioni tra quartieri agiati e quartieri meno abbienti. La parrocchia di Regina Pacis è connotata da una forte presenza di residenti di lingua italiana, portatori di culture diverse, persone di estrazioni, necessità, aspettative e obiettivi più o meno condivisi, provenienti, per scelte talvolta obbligate, da luoghi socialmente depressi e dove non si trova lavoro, non più affrancati dall’agricoltura o profughi da calamità naturali. Famiglie che hanno lasciato i loro luoghi d’origine, ma che portano con sé radici, tradizioni, antiche sapienze e, nei più anziani, residui di precedenti dominazioni; persone che devono fondersi con gli autoctoni, a loro volta orfani di un impero crollato da tempo, ma spesso ancora rimpianto. Famiglie, dunque, che devono fare i conti con una realtà “diversa” e complessa. Da quell’intreccio di provenienze e culture nasce quel dialetto che non esiste, il bolzanese o bolzanesco, modalità espressiva (sempre meno) usata nel capoluogo, che assomma calate padane con coloriture venete, etimo tedesco e contaminazioni trentine, idiomi ladini e via dicendo: voci provenienti dal microcosmo quotidiano di altre province. In una realtà così variegata trasmettere ai propri figli un’identità non è compito facile, anche per la mancanza di una comunità che colmi le lacune delle strutture pubbliche preposte all’educazione e all’assistenza.